Dopo sette anni di trattative, la Svizzera ha deciso unilateralmente di interrompere i negoziati sull’accordo quadro istituzionale, mettendo in discussione la possibilità di proseguire e approfondire le relazioni bilaterali tra la Confederazione e l’UE. Ancora una volta, il nodo gordiano della crisi è costituito dalla libera circolazione delle persone, principio fondamentale dell’integrazione comunitaria, accettato forzatamente dalla Svizzera in occasione dei negoziati sui c.d. accordi bilaterali I e costantemente osteggiato dai partiti di estrema destra e da alcuni governi cantonali.

L’accordo quadro istituzionale avrebbe obbligato la Svizzera ad adeguare la normativa interna agli sviluppi comunitari nelle materie regolate dai principali accordi bilaterali fra i quali l’accordo sulla libera circolazione delle persone (ALC) e a riconoscere una competenza almeno pregiudiziale alla Corte di giustizia. Nella lettera consegnata personalmente dalla negoziatrice elvetica Livia Leu alla Commissione europea il 26 maggio scorso, il Consiglio federale spiega che l’obbligo di recepire senza deroghe gli sviluppi normativi relativi all’ALC, ovvero tutto l’acquis communautaire relativo alla cittadinanza dell’UE, avrebbe con molta probabilità determinato un risultato negativo del voto popolare cui l’accordo quadro istituzionale sarebbe stato sottoposto, mettendo in seria difficoltà il governo elvetico rispetto alla necessità di ottemperare agli obblighi internazionali, da un lato, e rispettare la volontà popolare, dall’altro lato. Questo “rischio” ha indotto la Svizzera a chiudere i negoziati, ritenendo che un voto popolare negativo avrebbe danneggiato più gravemente i rapporti con l’UE.

Immediata la reazione della Commissione. Con l’accordo quadro, spiega in un comunicato, l’UE intendeva sanare uno squilibrio sempre più evidente nelle relazioni bilaterali, potendo la Svizzera accedere al mercato unico vincolata da norme meno stringenti rispetto ad altri operatori. Per questo motivo, già nel 2019, l’UE aveva insistito sull’importanza dell’accordo quadro per la conclusione di eventuali futuri accordi bilaterali, ribadendo più volte la necessità di garantire la parità delle condizioni a chiunque abbia accesso al mercato unico.

Le relazioni che la Svizzera intrattiene con l’UE sono del tutto peculiari rispetto a quelle che l’UE ha elaborato con altri Paesi terzi, sia per l’intensità delle stesse sia per le tecniche giuridiche utilizzate nella regolamentazione. Si tratta di oltre 120 accordi bilaterali settoriali, di cui una ventina principali e un centinaio secondari che rendono direttamente applicabili taluni ambiti del diritto UE nella Confederazione. In particolare, al primo accordo sul libero scambio del 1972 hanno fatto seguito, nel 1989, l’accordo sulle assicurazioni e, nel 1990, l’accordo sulla facilitazione e la sicurezza doganale (rivisto nel 2009). Dopo il rifiuto di aderire allo SEE nel 1992, la Svizzera ha firmato con l’UE un primo pacchetto di accordi nel 1999 (bilaterali I: libera circolazione delle persone; ostacoli tecnici al commercio; appalti pubblici; agricoltura; trasporti terrestri; trasporto aereo; ricerca) ed un secondo nel 2004 (bilaterali II: associazione a Schengen (AAS) e Dublino (AAD), fiscalità del risparmio, lotta contro la frode, prodotti agricoli trasformati, ambiente, statistica, media, pensioni). Nel 2010 è stato firmato l’accordo sull’educazione, la formazione professionale e la gioventù. Fra tutti, l’accordo sulla libera circolazione delle persone è senza dubbio quello più complesso e che la Svizzera ha accettato con maggiori difficoltà, tant’è vero l’UE impose che gli accordi bilaterali I fossero negoziati parallelamente, firmati e attuati contemporaneamente nonché che si introducesse la clausola “ghigliottina”, in base alla quale l’estinzione di uno dei sette accordi avrebbe determinato la decadenza di tutti gli altri. La clausola non è stata ripresa nei bilaterali II ma è nuovamente contenuta nell’accordo di cooperazione della Svizzera al pacchetto Horizon 2020, firmato il 5 dicembre 2014 (art. 3, par. 4). Inoltre, sebbene distinti, risultano strettamente connessi con l’ALC, l’AAS e l’AAD; per questo motivo l’UE potrebbe decidere di far decadere anche tali accordi sebbene in conformità alla clausola di denuncia in essi prevista (rispettivamente artt. 16 e 17).

Ad eccezione dell’accordo sul trasporto aereo e degli accordi Schengen/Dublino che prevedono la ripresa letterale dell’acquis UE, gli altri accordi sono statici, nel senso che assicurano la compatibilità della normativa svizzera solo con il diritto UE in vigore al momento dell’adozione dell’accordo stesso. L’adeguamento agli sviluppi successivi della normativa europea avviene nell’ambito dei comitati misti, secondo procedure istituzionali assai lunghe e complesse che non traspongono automaticamente il diritto europeo nel diritto svizzero ma tendono a rendere quest’ultimo equivalente alla legislazione comunitaria. Le parti contraenti, così, mantengono la loro autonomia decisionale e, in particolare, la Confederazione non ha dovuto trasferire alcuna competenza legislativa ad un’istanza sovrannazionale. I comitati misti, istituiti uno per ogni accordo (fatta eccezione per l’accordo sulla fiscalità del risparmio e sulle pensioni), sono costituti dai rappresentati delle parti contraenti e prendono decisioni all’unanimità.

Gli accordi garantiscono anche un’autonomia dal punto di vista processuale, posto che non prevedono l’istituzione di organi giurisdizionali ad hoc né per la risoluzione delle controversie fra le parti contraenti né per denunciare una violazione degli obblighi convenzionali. Eventuali contrasti tra UE e Svizzera sono discussi nell’ambito dei comitati misti, mentre la sorveglianza sulla corretta applicazione degli accordi avviene tramite le vie di ricorso esperibili nell’ambito dei rispettivi ordinamenti.

Attraverso queste tecniche giuridiche, la Svizzera ha potuto usufruire di una posizione privilegiata rispetto ad altri Stati terzi, avendo ampio accesso al mercato unico ma salvaguardando, al contempo, la propria autonomia legislativa e giudiziaria. D’altro canto, questo status era considerato una fase preparatoria all’ingresso della Svizzera nell’UE, almeno sino al 2016 quando la Confederazione ha deciso di ritirare la domanda di adesione, depositata nel maggio 1992.

Tale decisione, unitamente alle iniziative popolari intese a introdurre nella Costituzione federale norme contrarie ai principi della libera circolazione delle persone (in particolare l’iniziativa contro l’immigrazione di massa, del 2014; sul punto sia consentito un rinvio a C. Sanna) nonché il recesso del Regno Unito che ha ridotto la tolleranza dell’UE verso accordi che consentono l’accesso al mercato interno a Paesi terzi, derogando ai principi fondamentali dell’integrazione comunitaria, sono alla base della volontà d’imporre alla Svizzera i negoziati sull’accordo quadro istituzionale. Significativo il fatto che il modello elvetico fu inizialmente indicato come possibile sistema di riferimento per definire la posizione del Regno Unito ma ben presto abbandonato (cfr. in questa Rivista). 

L’UE ha più volte ribadito che l’intesa sull’accordo quadro avrebbe condizionato la definizione di accordi su altri dossier e l’aggiornamento di quelli esistenti. Resta dunque assai difficile pensare oggi alla conclusione di accordi nel settore energetico, della concorrenza, dell’agricoltura, della salute pubblica e della sicurezza alimentare, rispetto ai quali erano aperti i negoziati. D’altro canto, sorgono grosse incertezze anche riguardo alla partecipazione della Svizzera ai programmi di ricerca e innovazione dell’UE dai quali potrebbe essere esclusa, come già avvenuto nel 2014, così come dubbia è la posizione che l’UE vorrà assumere in merito all’equivalenza delle borse, concesso solo nel 2019 e che per il momento si rifiuta di prolungare.