Leggendo la lettera di invito del Presidente Charles Michel ai membri del Consiglio europeo appariva già chiaro che la riunione del 16 dicembre scorso sarebbe stata politicamente impegnativa e controversa. Nell’ordine del giorno erano inclusi la situazione epidemiologica, la gestione condivisa delle crisi, i prezzi dell’energia, la sicurezza e la difesa, le rotte migratorie, e le relazioni esterne, con riferimento particolare alla Bielorussia e Ucraina, al vicinato meridionale, al vertice UE-Unione Africana e, infine, alla situazione etiope (si rinvia alla documentazione di Camera e Senato per un approfondimento sui singoli temi). L’obiettivo era quello di pervenire ad una strategia di gestione di tali fenomeni imperniata sul coordinamento, un passaggio cruciale per stimolare una riflessione più matura sulla necessità di rafforzare la capacità di risposta e la resilienza collettiva dell’UE alle crisi future. Un obiettivo, quest’ultimo, che rappresenta uno dei tasselli mancanti nel processo di integrazione politica ma che, anche in occasione dell’ultima riunione, ha dovuto fare i conti con le istanze contrastanti avanzate dagli Stati membri (SM): in tutti i temi affrontati si celano divisioni concrete, a partire dalla gestione della situazione epidemiologica, i prezzi dell’energia e, in fin dei conti, anche nella lotta al cambiamento climatico.
Alla espressa manifestazione di queste divisioni concrete ha partecipato anche l’Italia, che, con la recente ordinanza del Ministro della Salute, ha previsto l’obbligo del test negativo in partenza per tutti gli arrivi dai paesi UE e, per i non vaccinati, anche un periodo di quarantena di cinque giorni. In occasione delle comunicazioni svolte nelle due camere il 15 dicembre, il Presidente del Consiglio ha espresso forte preoccupazione verso la nuova variante Omicron che sta imperversando nel continente, ma nulla ha detto sull’ordinanza emanata il giorno precedente, se non, in fase di replica, che l’atto è una risposta alla capacità di diffusione della nuova variante nettamente superiore alle altre; sebbene la situazione in Italia sia relativamente favorevole, in altri paesi europei la variante è molto diffusa, «per cui si è pensato di attuare la stessa pratica che si usa oggi per i visitatori che provengono dal Regno Unito, quindi un tampone. Non credo che ci sia molto da riflettere su questo».
Eppure parte delle istituzioni europee, e non solo, non hanno accolto con favore l’approccio dell’Italia e di altri SM (tra cui Irlanda, Portogallo e, da ultimo, Grecia) che sembra remare in direzione opposta rispetto a quella che, simbolicamente, è rappresentata dal certificato verde Covid digitale dell’UE. Al contrario di ciò che si può pensare, del margine di spazio per una riflessione, tutto sommato, c’è.
La decisione italiana è stata criticata nell’immediato dalla vicepresidente della Commissione europea, Vĕra Jourová, secondo cui eventuali restrizioni ai viaggi dovrebbero essere decise di comune accordo. D’altra parte, così si evince anche nella Comunicazione del 1 dicembre della Commissione europea (COM(2021)764), intitolata proprio “Affrontare insieme le sfide attuali e future poste da Covid-19”. Nel documento si legge che «sulla base delle più recenti prove scientifiche disponibili, e in linea con il principio di precauzione, per rispondere all’attuale rischio derivante dalla variante Omicron, gli SM potrebbero prendere in considerazione l’introduzione di un test obbligatorio prima dell’arrivo, in particolare per i viaggi verso l’UE, ma anche all’interno dell’Unione, nel quadro del meccanismo di “freno di emergenza”». La Commissione si riferisce al meccanismo previsto nella raccomandazione adottata dal Consiglio sulla limitazione della libertà di circolazione (aggiornata al 14 giugno 2021), secondo cui, «qualora la situazione epidemiologica in una regione si deteriorasse rapidamente […] gli SM potrebbero attivare un freno di emergenza. Su tale base, gli Stati membri dovrebbero anche imporre alle persone vaccinate e a quelle guarite di sottoporsi a test e/o quarantene/autoisolamento». Come ricorda il Consiglio, infatti, «la decisione di introdurre o meno restrizioni alla libera circolazione per tutelare la salute pubblica rimane di competenza degli SM, ma è fondamentale coordinarsi». La Commissione ha espresso l’intenzione di presentare una proposta di nuova raccomandazione del Consiglio su un approccio più coordinato per agevolare la libera circolazione in sicurezza, esprimendo anche la necessità che le restrizioni imposte dagli SM all’interno del meccanismo del freno di emergenza siano proporzionate, non discriminatorie, trasparenti e pienamente coordinate.
La vicenda italiana, così come il caso portoghese, irlandese e greco, sono stati oggetto di dibattito in seno al Consiglio europeo che, nelle sue conclusioni, ha colto l’occasione per ribadire che «occorre proseguire gli sforzi coordinati per far fronte all’evoluzione della situazione sulla base delle migliori evidenze scientifiche disponibili, garantendo nel contempo che qualsiasi restrizione sia basata su criteri oggettivi  e non comprometta il funzionamento del mercato unico né ostacoli in modo sproporzionato la libera circolazione tra gli SM o i viaggi verso l’UE». In tal senso si è espresso anche il Presidente francese, Emmanuel Macron, che ha ammonito che «di fronte alle varianti del virus dobbiamo continuare ad agire da europei. Le persone vaccinate non dovranno farsi il tampone per viaggiare fra i paesi membri dell’UE».
Forse è proprio qui che giace il cuore del problema: come si agisce da “europei” se un’identità politica comune stenta ancora a prendere forma? cosa vuol dire “agire da europei”?
La questione si palesa dal momento in cui, nonostante le migliori intenzioni di armonizzazione nella gestione dei confini da parte delle istituzioni europee, ai primi segnali dell’aggravarsi della pandemia i confini nazionali si fanno sentire prepotentemente. Una forma di prepotenza legittimata dall’organizzazione dell’Unione europea stessa, dalla ripartizione delle competenze e dalle fonti che ne ordinano il sistema. Si pensi alla disciplina del certificato verde, strumento che vuole garantire la libera circolazione nel territorio europeo, ma che pur sempre prevede la possibilità per gli SM di definire le condizioni di accesso e di imporre requisiti aggiuntivi in parallelo al possesso del certificato. Ed è proprio l’assetto messo in piedi dalle istituzioni europee che ha permesso discipline disparate in materia di durata della validità del certificato e gli ultimi episodi sui test di ingresso nel paese. Gli avvenimenti recenti hanno dimostrato che sebbene le restrizioni aggiuntive debbano essere prese sulla base di dati oggettivi (quali?) e non debbano ledere in maniera sproporzionata il funzionamento del mercato unico, le istituzioni europee sono affette da un’inadeguatezza affliggente nel contrastare le decisioni prese unilateralmente dai governi nazionali.
Ciò è emerso anche in tema di energia. Nelle risoluzioni approvate la scorsa settimana, le due Camere hanno impegnato (Risoluzione 6/00200 e Risoluzione n.6-00202) il Governo a vigilare sui prezzi dell’energia e favorire la riduzione dei costi per i consumatori e le attività produttive. Un impegno sul quale il Governo dovrà tornare a riferire in Parlamento, dato che in sede di Consiglio europeo l’accordo non è stato trovato. Siamo dinanzi all’ennesimo tema spinoso che separa l’Unione europea in due. Un’Unione europea che su tanti, troppi temi è divisa da interessi nazionali distanti tra loro e che le istituzioni intergovernative con fatica riescono a ricomporre. Ma ciò non può destar stupore se si considera che i capi di stato e di governo in seno al Consiglio europeo sono a loro volta politicamente responsabili dinanzi ai rispettivi parlamenti, luoghi per eccellenza di rappresentanza dell’interesse nazionale.
Sorge spontanea la domanda se, in un quadro del genere e nella sua veste attuale, l’UE sia realmente in grado di affrontare «le crisi acute di natura diversa» di cui il Consiglio europeo ha parlato nelle sue conclusioni. A livello interno, uno strumento che potrebbe aiutare a superare le impasse che sorgono dal circuito fiduciario (ma non necessariamente) tra Governo e Parlamento nazionale potrebbe essere l’estensione della riserva di esame parlamentare (prevista, nel caso italiano, per i soli atti esaminati dal Consiglio) alle riunioni del Consiglio europeo. Per avere un effetto utile sarebbe necessaria una forma di armonizzazione di questo strumento parlamentare in tutti i paesi ma si tratta, come è giusto che sia, di decisione rimessa alla discrezionalità di ciascuno SM. Forse ciò che manca realmente è un luogo di ricomposizione effettiva di un interesse generale dell’UE che sia in grado di fornire un indirizzo politico: un Parlamento europeo che partecipi all’elaborazione di tale indirizzo insieme agli altri organi a ciò tradizionalmente deputati. Infatti, proprio perché la capacità di risposta e la resilienza collettiva alle crisi future costituiscono per l’Unione «un’importante priorità politica trasversale», e, soprattutto, un tassello fondamentale per costruire una forma di sovranità europea che sia radicata sui principi e valori fondanti di questa comunità, è necessario che la politica riacquisisca il suo ruolo di fonte principale di elaborazione, interpretazione e direzione degli obiettivi dell’Unione europea (come già era stato detto in questo Blog). E quale altra sede potrebbe meglio accogliere questa sfida se non il Parlamento europeo?