La sentenza del 24 marzo 2021 del Bundesverfassungsgericht fa il suo ingresso tra le pronunce storiche non solo in tema ambientale, ma anche in ambito costituzionale ed europeo. Significativa non solo perché rappresenta un futuro punto di riferimento nella climate litigation, ma anche perché riconosce che il Grundgesetz, attraverso una lettura dell’art. 20a, contiene un mandato costituzionalmente vincolante e verificabile dal punto di vista giudiziario per la protezione del clima.

Nel 2019 il legislatore federale approva il Klimaschutzgesetz (KSG), adottando le misure necessarie per conformarsi ai requisiti previsti dall’accordo di Parigi e agli obblighi derivanti dal “diritto climatico UE”. La legge prevede la graduale riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030, imponendo una quota consentita di emissioni annuali settoriali, insieme ai percorsi di riduzione che dovranno applicarsi fino a detta data. La normativa prevede inoltre un obbligo in capo al governo federale di adottare dal 2025 delle ordinanze volte a indicare le quote consentite di emissioni per il periodo successivo al 2030. I ricorrenti lamentano che alcune previsioni non siano adeguate a ridurre le emissioni di gas serra secondo il target fissato dall’accordo di Parigi, invocando il diritto fondamentale alla vita e all’integrità fisica (art. 2.2 GG), il diritto alla proprietà (art. 14.1 GG), e il diritto ad un futuro degno e ad un “minimo ecologico esistenziale”.

Il primo Senato del BVerfG giudica parzialmente incostituzionale la legge federale tedesca, nella misura in cui non regola adeguatamente le riduzioni delle emissioni dal 2031 in poi. Con la sentenza, i giudici di Karlsruhe richiamano il legislatore a riformare la legge sul clima, regolando, entro il 31 dicembre 2022, gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra per i periodi successivi al 2030. Sono tre i punti che si intende evidenziare in questo contributo: (i) il percorso argomentativo attraverso cui il giudice costituzionale giunge alla sua pronuncia; (ii) la “speciale dimensione internazionale” che la Corte riconosce al mandato di protezione del clima di cui all’art. 20a GG; (iii) i limiti che la sentenza riconosce all’azione politica esercitata dal legislatore federale.

Per quanto attiene al primo profilo, il giudice non ritiene che il legislatore abbia violato i propri obblighi rispetto al diritto alla vita e all’integrità fisica dei ricorrenti; né accerta una violazione diretta dell’art. 20a, da cui deriva un dovere di protezione del clima. La Corte rileva, piuttosto, una violazione del principio di proporzionalità, che, nel caso specifico, richiede che la riduzione di emissioni di CO2,“costituzionalmente necessarie” alla luce dell’art. 20a, siano distribuite nel tempo “in una prospettiva orientata al futuro”. Secondo il giudice, infatti, risulta proprio da questo principio che a una generazione non dovrebbe essere permesso di consumare buona parte del budget di CO2 con un onere relativamente leggero, se ciò comportasse non solo un onere più radicale per le successive generazioni, ma anche una più ampia perdita di libertà (§§192-193). Il giudice si sarebbe aspettato, quindi, un’applicazione più stringente del principio di precauzione per tutelare i diritti fondamentali intesi come “salvaguardia intertemporale della libertà” (§122).

In merito al secondo profilo, la Corte svolge un’operazione di non poco conto riconoscendo al mandato di protezione del clima di cui all’art. 20a una “speciale dimensione internazionale” (§199). Riconoscendo tale dimensione, la Corte non si ferma ad una mera riflessione degli obblighi dello Stato all’interno del proprio territorio, piuttosto estende le sue considerazioni anche al contesto sovranazionale, rinvenendo anche in tale quadro una responsabilità giuridica dello Stato verso la protezione del clima. Responsabilità a cui, però, il giudice risale attraverso una lettura estensiva della norma costituzionale interna. In altre parole, l’obbligo dello Stato verso la protezione del clima, seppure in una prospettiva internazionale, è in ogni modo riconducibile all’obbligo sancito all’art. 20a GG. Questo emerge chiaramente quando si legge che l’art. 20a contiene un “obbligo che va inevitabilmente oltre il diritto nazionale a disposizione del solo singolo Stato e deve essere inteso come riferimento anche al livello di azione internazionale” (§201).

Di non minore importanza si rileva che il giudice, pur ribadendo il margine di manovra di cui dispone il legislatore, non ritiene quest’ultimo totalmente libero di specificare i requisiti di protezione del clima di cui all’art. 20a. In questo caso, infatti, il connubio tra dati scientificamente e costituzionalmente rilevanti finisce per limitare la discrezionalità politica del legislatore. Pur riconoscendo che la norma preveda una riserva di legge attraverso cui il legislatore può concretizzare gli obiettivi di riduzione, il requisito di protezione del clima può comunque essere sottoposto ad una verifica da parte del BverfG, alla luce del target del climate neutrality. Il giudice sottolinea, infatti, che è verso tale obiettivo che deve tendere il dovere di protezione del clima di cui all’art. 20a. Tale connubio emerge chiaramente quando il giudice afferma che “come specifica costituzionalmente necessaria e fondamentale, il requisito di temperatura, su cui si basa la protezione del clima, sviluppa una funzione di orientamento costituzionale. Anche per il controllo costituzionale costituisce la specificazione decisiva del mandato di protezione del clima contenuto nell’art. 20a” (§213).

La limitazione della discrezionalità politica del legislatore emerge in maniera più netta quando il giudice sostiene che l’art. 20a sia una norma che lega il processo politico a favore delle questioni ecologiche (§197). Passaggio emblematico, perché la pretesa giuridica che deriva dall’art. 20a diventa una pretesa che vincola in maniera significativa anche il processo politico. Si legge, infatti, che la disposizione “non è un programma non vincolante, ma una norma legale che vincola il legislatore” (§205). La Corte giustifica questa posizione prendendo in considerazione che il “processo politico democratico è organizzato su periodi elettorali con breve durata”, che “è più difficile reagire alle preoccupazioni ambientali che devono essere perseguite nel lungo termine” e che “le generazioni future particolarmente colpite non hanno voce nel processo decisionale di oggi”. Alla luce di queste “condizioni istituzionali”, l’art. 20a “impone vincoli legali al contenuto della decisione democratica” (§206). In maniera non del tutto indiscutibile, la Corte sembra dunque delimitare il campo di azione del legislatore.

La pronuncia ha il merito di aprire prospettive di grande interesse e, in attesa della risposta del legislatore tedesco, ci si potrà sicuramente aspettare una maggiore chiarezza e precisione della legge, dando così adito al monito del giudice in relazione al principio di legalità (§260ss). L’impianto normativo dovrà essere più dettagliato, specie nel caso il legislatore volesse riconfermare l’uso delle ordinanze del governo, e ciò in virtù del forte nesso tra la misurazione delle emissioni annuali post-2030 e la realizzazione dei diritti fondamentali. In ultima istanza, il legislatore dovrà mostrarsi in grado di avvalersi costantemente dei nuovi sviluppi scientifici, garantendo così l’obiettivo finale di una “protezione dinamica dei diritti fondamentali”.