É approdata dinanzi alla Corte di giustizia, lo scorso maggio, la procedura d’infrazione avviata nei confronti dell’Italia per aver applicato ai cittadini italiani emigrati all’estero un trattamento di favore, in materia d’imposta di registro immobiliare, in violazione del principio di non discriminazione di cui all’art. 18 TFUE e del principio di libera circolazione di capitali tra Stati membri di cui all’art. 63 TFUE.
La normativa italiana in materia d’imposta di registro, contenuta nel d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, contempla, soddisfatte alcune condizioni, la possibilità di accedere al regime di aliquota ridotta – pari dunque al 2%, anziché al 9% – sull’acquisto della “prima casa” nel territorio dello Stato. Tra tali condizioni, elencate alla nota II-bis) dell’art. 1, comma 1, par. 2 del primo allegato al richiamato d.P.R., rileva ai presenti fini il cd. “requisito della residenza”, il quale prevede che per beneficiare del regime preferenziale sia necessario che l’immobile acquistato quale “prima casa” si trovi (i) nel comune in cui l’acquirente ha, o stabilisca entro diciotto mesi, la residenza o (ii) nel comune in cui l’acquirente svolge la propria attività o, se trasferitosi all’estero per ragioni di lavoro, in cui ha sede o esercita la propria attività il soggetto da cui il medesimo dipende.
Soltanto in favore dei cittadini italiani emigrati all’estero, la norma introduce una deroga a tale requisito, non richiedendo alcun vincolo di residenza, ma unicamente che «l’immobile sia acquistato come prima casa sul territorio italiano». Tale previsione è ancor meglio esplicitata nella circolare dell’Agenzia delle Entrate del 15 agosto 2005, n. 38/E, la quale, nel chiarire la portata della citata nota II-bis), afferma che, per quanto concerne i cittadini italiani, «l’agevolazione compete a condizione che l’immobile sia ubicato in qualsiasi punto del territorio nazionale, senza, peraltro, che sia necessario per l’acquirente stabilire entro diciotto mesi la residenza nel comune in cui è situato l’immobile acquistato», mentre «per tutti i contribuenti che non hanno la cittadinanza italiana, l’agevolazione [..] spetta solo se ricorrono tutte le condizioni di cui alla nota II-bis), ed in particolare se l’acquirente abbia (o stabilisca entro diciotto mesi) la residenza nel comune in cui è ubicato l’immobile acquistato».
La ratio della norma in esame si fonda sul «particolare valore sociale riconosciuto al lavoro prestato all’estero e all’immigrazione» (cfr. Cass. civile, sez. VI, ordinanza del 9 luglio 2014, n. 15617) e ha per lo più il fine di favorire il mantenimento di un legame duraturo tra il cittadino emigrato all’estero e lo Stato italiano di provenienza (sul punto v. C. Grazioli).
Ebbene, la fattispecie descritta integrerebbe, in primo luogo, una discriminazione diretta fondata sul requisito della nazionalità: per espressa previsione normativa, in quei casi in cui l’acquirente non soddisfi il requisito della residenza, la cittadinanza risulta essere l’unico elemento determinante ai fini dell’applicazione o meno dell’aliquota ridotta. In altre parole, i cittadini “comunitari” non italiani che volessero acquistare un (primo) immobile in Italia, i quali non siano residenti o intenzionati a trasferire la propria residenza nel territorio dello Stato, sarebbero soggetti a un’imposizione fiscale più alta di quella che si applicherebbe, in situazione analoga, ai cittadini italiani emigrati all’estero.
In secondo luogo, la fattispecie in esame sarebbe tale da porre in essere anche una violazione del principio di libera circolazione dei capitali, dal momento che – come costantemente affermato dalla giurisprudenza “comunitaria” (v. inter alia Corte giust., sentenza dell’11 settembre 2014, Verest e Gerards, causa C-489/13) – l’acquisto di un immobile sul territorio di uno Stato membro, da parte di un non
residente, costituisce senza dubbio un investimento immobiliare riconducibile alla categoria dei movimenti di capitali tra Stati membri e, come tale, deve essere libero da ogni restrizione.
D’altronde, il caso in esame non parrebbe neppure poter rientrare tra le ipotesi di cui all’art. 65, comma 1, lett. a) TFUE, le quali – introducendo una deroga in materia di legislazione tributaria al precedente art. 63 – consentono di operare una distinzione tra contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto concerne (i) il loro luogo di residenza o (ii) il luogo di collocamento del loro capitale. Tali distinzioni, infatti, ai sensi del successivo comma 3, «non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti»; quindi, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della Corte, perché le disposizioni tributarie nazionali possano essere considerate compatibili con il diritto dell’Unione «occorre che la differenza di trattamento riguardi situazioni che non sono oggettivamente comparabili o sia giustificata da motivi imperativi di interesse generale (v. inter alia Corte giust., sentenza del 18 marzo 2021, Autoridade Tributária e Aduaneira, causa C-388/19), entrambe ipotesi che non parrebbero ricorrere nel caso di specie. Sul punto, si reputa opportuno rilevare come la distinzione tra cittadini italiani emigrati all’estero, pertanto non residenti, e cittadini “comunitari” non italiani e non residenti che volessero acquistare un immobile in Italia quale “prima casa”, operata dalla nota II-bis) dell’art. 1, comma 1, par. 2 del secondo allegato al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, concerna senza dubbio due situazioni oggettivamente comparabili, sia per quanto riguarda il luogo di residenza, trattandosi in entrambi i casi di soggetti non-residenti in Italia, sia con riferimento al luogo di collocamento del loro capitale, riguardando ambedue un investimento di capitale in Italia, sotto forma di acquisto di un immobile. Inoltre, non sembrerebbero sussistere motivi imperativi di interesse generale, tali da giustificare la discriminazione posta in essere dalla legislazione italiana, se non altro, per il solo fatto che il raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalla norma in esame non risulterebbe in alcun modo compromesso dall’estensione a tutti i cittadini “comunitari” non residenti in Italia del regime fiscale più favorevole.
La procedura d’infrazione in oggetto era stata aperta dalla Commissione nei confronti dell’Italia nel gennaio del 2014 ma, da parte di quest’ultima, non è mai pervenuto alcun riscontro positivo: anche a seguito del parere motivato, inviato nel gennaio 2018, l’Italia non ha manifestato alcuna volontà di modificare la propria legislazione per conformarsi al diritto dell’Unione europea. D’altronde, dalla ricostruzione della normativa nazionale, pochi sembrano essere, oggi, gli spiragli in favore di un eventuale esito positivo della procedura per l’Italia, il cui sopravvenuto adempimento risulterebbe, per giunta, tardivo, pertanto non più idoneo a evitare l’accertamento dell’infrazione ad opera della Corte di giustizia.
Nell’attesa della pronuncia definitiva, il verdetto sembra purtroppo essere già scritto.