Adottato in seguito ad un acceso braccio di ferro con Polonia ed Ungheria, i due Paesi dell’Unione europea che si sono maggiormente distinti per lo sviluppo di una deriva illiberale in contrasto con la piattaforma valoriale dell’Unione, il regolamento UE 2020/2092, relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio sovranazionale, è entrato ufficialmente in vigore l’11 gennaio 2021. 

Lo strumento introduce un meccanismo volto alla tutela dello Stato di diritto che può portare all’adozione di sanzioni nei confronti degli Stati membri che abbiano dato vita a violazioni di quest’ultimo tali da compromettere, o rischiare di compromettere, in modo serio e sufficientemente diretto la sana gestione del bilancio dell’Unione e la tutela dei suoi interessi finanziari. Le misure, proposte dalla Commissione in seguito ad un contraddittorio instaurato con lo Stato in questione, sono decise dal Consiglio: si va dalla sospensione di pagamenti nei confronti dello Stato al divieto di assumere nuovi impegni giuridici; dalla riduzione di prefinanziamenti alla sospensione totale o parziale dell’erogazione dei versamenti o al rimborso anticipato dei prestiti garantiti dal bilancio dell’Unione europea. È poi possibile disporre la revoca delle misure adottate su richiesta dello Stato membro interessato o a seguito di riesame da parte della Commissione.

Benché l’ambito materiale del regolamento non copra qualsiasi ipotesi di violazione dello Stato di diritto, limitandosi a “colpire” i comportamenti che incidono sul bilancio UE, l’adozione del provvedimento è stata salutata con particolare favore, tenuto conto della nota difficoltà che le istituzioni politiche dell’Unione hanno sin qui incontrato nel reagire agli attacchi allo Stato di diritto provenienti da taluni Paesi membri. Si tratta del c.d. “dilemma di Copenaghen”: in base ad esso, le istituzioni sovranazionali valuterebbero con rigore il rispetto dei valori su cui l’Unione europea si basa nel contesto del processo di adesione di un nuovo Paese, risultando poi sostanzialmente incapaci di verificare che tale rispetto permanga una volta che il Paese è divenuto uno Stato membro. E tuttavia, come ricordato dalla Corte di giustizia, l’obbligo per gli Stati membri di rispettare i valori fondamentali dell’Unione ne caratterizza la partecipazione ad essa sicché non è possibile in alcun modo dare vita ad una regressione della loro tutela (causa C-896/19, Repubblika c. Il-Prim Ministru, ECLI:EU:C:2021:311, § 63).

In effetti, è proprio la giurisprudenza della Corte di giustizia ad aver sin qui apprestato la reazione più ferma rispetto alle riforme illiberali introdotte sul piano nazionale. Come noto, ciò è avvenuto con particolare riguardo alle modifiche del sistema giudiziario realizzate in Polonia attraverso la valorizzazione del combinato disposto di cui agli artt. 2, 4.3 e 19.1 TUE (v. causa C-619/18, Commissione c. Polonia, ECLI:EU:C:2019:531; causa C-192/18, Commissione c. Polonia, ECLI:EU:C:2019:924; cause C-585/18, C-624/18 e C-625/18, A.K. e a., ECLI:EU:C:2019:982; cause riunite C-558/18 e C-563/18, Miasto Łowicz e Prokurator Generalny, ECLI:EU:C:2020:234; causa C-824/18, A.B. e a., ECLI:EU:C:2021:153).

Molte sono dunque le aspettative sul nuovo meccanismo di condizionalità, adottato congiuntamente al nuovo quadro finanziario pluriennale (QFP) e a Next Generation EU. Resta tuttavia da capire se esse siano ben riposte.
Per fare questo è necessario richiamare le conclusioni della seduta del Consiglio europeo tenutasi il 10 e 11 dicembre 2020, nel corso della quale gli Stati UE sono pervenuti ad una intesa di massima che ha consentito di vincere le resistenze mostrate da Polonia e Ungheria. I due Paesi, infatti, con una presa di posizione congiunta di inedita durezza, si erano dichiarati pronti a bloccare l’adozione del QFP, e dunque di Next Generation EU, nel caso in cui si fosse introdotto il meccanismo di condizionalità sul bilancio.

Due sono gli elementi delle conclusioni del Consiglio europeo che meritano di esser richiamati. Il primo di essi ha a che vedere con il tentativo di definire ulteriormente l’ambito di applicazione del regolamento ed il suo funzionamento. Al riguardo, il Consiglio europeo “informa” che la Commissione «intende elaborare e adottare linee guida sulle modalità con cui applicherà il regolamento, compresa una metodologia per effettuare la propria valutazione» e che, «[f]ino alla messa a punto di tali linee guida la Commissione non proporrà misure a norma del regolamento». Si tratta di una circostanza quantomeno curiosa. Il testo del regolamento, infatti, non menziona in alcun modo tali linee guida. Ancor più rilevante è poi l’ulteriore precisazione contenuta nelle conclusioni, e cioè che fino a quando tali linee guida non verranno predisposte dalla Commissione, essa non proporrà alcuna misura nei confronti di Stati membri alla luce del regolamento. Tale affermazione dà vita, invero, ad una indebita modifica dell’ambito di applicazione temporale del regolamento, che risulta applicabile dal 1° gennaio 2021 (art. 10). 

L’indicazione fornita dal Consiglio europeo circa la “sospensione” dell’applicazione del regolamento in attesa delle linee guida redatte dalla Commissione non si può però comprendere completamente senza fare riferimento ad un secondo elemento presente nelle conclusioni, è cioè la prefigurazione dell’impugnazione del regolamento davanti alla Corte di giustizia al fine di farne dichiarare l’illegittimità. Ove si concretizzasse una tale situazione, spiega il Consiglio europeo, la Commissione dovrebbe attendere la pronuncia della Corte di giustizia, in modo da incorporare nelle linee guida «eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza». 

La “profezia” del Consiglio europeo si è puntualmente avverata: l’11 marzo 2021 Ungheria e Polonia hanno presentato due ricorsi di invalidità ex art. 263 TFUE contro il regolamento (cause C-156/21, Ungheria c. Parlamento e Consiglio e C-157/21, Polonia c. Parlamento e Consiglio). A pensar male, si potrebbe ritenere che, proprio grazie alle indicazioni anticipate dal Consiglio europeo e tenuto conto della durata dei procedimenti innanzi alla Corte di giustizia (assestatasi, nel 2020, su una media di 15,4 mesi), l’applicazione del regolamento risulterà di fatto “sospesa” per il tempo necessario a che si tengano in Ungheria le elezioni politiche (calendarizzate nella primavera del 2022), mettendo al riparo l’attuale maggioranza da possibili attacchi da parte dell’opposizione giustificati alla luce dell’attivazione del regolamento stesso. È in effetti poco probabile che si disponga una procedura accelerata per il trattamento delle due cause.

Sul piano strettamente giuridico, è difficile non scorgere nell’azione del Consiglio europeo, come sottolineato prontamente dal Parlamento, una violazione della leale cooperazione che deve ispirare la condotta delle istituzioni dell’Unione (art. 13.2 TUE). Ciò al netto dell’esistenza di taluni nodi irrisolti presenti nel regolamento – su tutti quello relativo alla (eccessiva) ampiezza delle fattispecie che possono portare all’adozione di misure sanzionatorie – che ben potrebbero venire censurati dal giudice UE.
In generale, occorrerebbe seriamente domandarsi quanto ancora possa tollerarsi una situazione nella quale il comportamento di pochi Stati, in spregio allo spirito di leale cooperazione che dovrebbe caratterizzarne la membership all’Unione, finisce per condizionare (in pejus) l’evoluzione del processo di integrazione nel suo insieme. L’esperienza di questi anni ha chiaramente dimostrato che il mitridatismo non è in grado di funzionare nel contesto sovranazionale. Vale semmai il contrario: il rischio al quale l’Unione europea è esposta è quello di uno shock sistemico. Occorre comprenderlo una volta per tutte. E agire di conseguenza.